Il libro che oggi ci consiglia Maria Civita d’Auria si può considerare un classico della letteratura inglese. Una lettura consigliata per conoscersi, andare oltre il proprio vissuto e avvicinarsi alla sofferenza e alla capacità di affrontarla e trasformarla in consapevolezza.

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Il quinto figlio

autore Doris Lessing

ed. Feltrinelli

genere narrativa

Pag. 166

Euro 10,00

ISBN: 978-8807893247

Harriet e David

Harriet e David si conoscono a una festa aziendale. Tre ditte collegate, che in un modo o nell’altro hanno a che fare con l’edilizia, hanno unito le loro forze per organizzare questo mega-party dove partecipano circa duecento persone, in occasione della fine dell’anno. Harriet lavora nel settore vendite di una ditta che produce materiali per l’edilizia, David fa l’architetto. Harriet è molto bella. Ha capelli scuri e ricci e gli occhi azzurri dallo sguardo dolce. I suoi lineamenti sono forti e il corpo è solido. David è un giovane esile con il viso tondo e ingenuo e soffici capelli scuri. Sembra ancora più giovane della sua età. Nessuno dei due dimostra di partecipare con gioia a questo evento e difatti se ne stanno per conto loro con un bicchiere in mano, a guardare perché non sopportano il gran baccano e il chiasso di quella sera. I colleghi non ci fanno caso perché più o meno tutti li giudicano antiquati, vecchio stampo e retrogradi e difatti i due giovani sono fuori tempo.

Il matrimonio

Siamo negli anni ‘60 e tutti parlano di libertà mentre i due giovani sono molto conservatori. Come se sentissero di avere molte cose in comune, i due si attraggono come una calamita. Iniziano a parlare e subito si sentono in perfetta sintonia, perché hanno le idee simili in tutti i campi, ma soprattutto concepiscono nello stesso modo la vita coniugale. Ne segue un breve fidanzamento e poi subito un matrimonio. Per vivere insieme acquistano una grande casa vittoriana, a una distanza ragionevole da Londra dove è ambientata la storia. È a tre piani, completa di attico, piena di stanze, corridoi, pianerottoli. Tutto lo spazio che ci vuole per un mucchio di bambini, che hanno intenzione di avere. Questa casa è al di sopra delle loro possibilità, ma i due giovani sono fiduciosi. Durante le feste natalizie, la Pasqua e le vacanze estive questa loro nuova abitazione si riempie di amici, parenti e vi sono anche i genitori dei due giovani, molto diversi fra loro.

Le famiglie

Dorothy, la madre di Harriet è vedova di un chimico, ha come unico scopo nella vita quello di andare a trovare la figlia, anche per sfuggire alle quattro mura del suo appartamentino, costretta ad abitare dopo la morte del marito. Non si lamenta di questa sua situazione, lei è una donna schietta, sana, generosa e di bell’aspetto. Ha una zazzera di riccioli color acciaio. Il viso è tondo, le guance rosa e ha due splendidi occhi azzurri. I genitori di David, invece, sono divorziati. Il padre, James Lowatt, è un uomo ricco, un costruttore navale, che passa la vita a bordo di uno yacht. È uno sportivo e veste come tale. In seconde nozze ha sposato Jessica, una donna molto giovanile, snella e abbronzata, con i capelli corti, quasi gialli. È molto eccentrica anche nell’abbigliamento perché preferisce colori molto vivaci. La vita di James e di Jessica è sempre stata caratterizzata da una grande disinvoltura nei confronti del denaro. Al contrario di Molly, madre di David e del patrigno Frederick Burke che è un accademico, uno storico. Lui e Molly vivono in un grande edificio cadente a Oxford e sono molto parsimoniosi. Anche il loro abbigliamento è un po’ dimesso, senza nessuna concessione alla moda. David preferisce l’oculatezza dei Burke, ma è il padre James a pagare l’ipoteca della casa e a elargire molti soldi al figlio, aiutandolo in ogni occasione.

Nascono i figli

Anche se David, secondo il mondo britannico, figura qualche gradino più in alto rispetto ad Harriet, per la coppia non è alcun problema. Nel giro di pochi anni e a distanza di poco tempo l’uno dall’altro mettono al mondo quattro figli: Luke, Helen, Jean e Paul tutti con riccioli biondi, occhi azzurri e guance rosa. Anche se le gravidanze non sono facili, Harriet e David sono al culmine della gioia perché sentono di aver raggiunto il loro obiettivo, quello di creare una famiglia felice. A compromettere questa situazione idilliaca è la nascita del quinto figlio. A Natale del 1973 Harriet si accorge di essere di nuovo incinta. Ma questa gravidanza si presenta più difficile delle altre. Anche David ne è consapevole. Il feto ha movimenti bruschi, batte improvvisi colpi sulla parete uterina lasciando David incredulo e Harriet stravolta ed esausta.

La gravidanza difficile

Il rapporto fra i due coniugi si incrina, non è più quello di un tempo. Per un nonnulla Harriet perde le staffe, scoppia in lacrime e si sente respinta perché David non si sdraia più accanto a lei, nel lettone, a sentire i movimenti di questa nuova vita, a darle il benvenuto con il suo modo di fare, partecipe e affettuoso. Inevitabilmente tra lei e David si crea una grande distanza perché il dolore, le lacrime non erano nei loro programmi. Ormai Harriet pensa al feto come un nemico che arriverà in casa. La situazione è diventata ingestibile. David cerca delle bambinaie a Londra ma i quattro bambini, senza contare il quinto in arrivo, costituiscono un ostacolo insormontabile. Alla fine è Dorothy, la mamma di Harriet, ad aiutare la figlia e a far fronte alle difficoltà.

Harriet consulta il medico

A causa dei calci da parte del feto che sembra deciso a squarciarle il ventre, Harriet si reca dal dottor Brett, un uomo all’antica, non più giovane, dall’aria perennemente stanca, ma molto professionale. Le dice che il bambino è molto grosso ma ancora nella norma e che è un bambino pieno di vita. Le prescrive dei tranquillanti che sono un’ancora di salvezza per Harriet, che inizia ad abusarne decisa a sedare il feto, per poter dormire e stare più tranquilla durante la giornata. Presto si rende conto che questo rimedio è blando perché i dolori continuano a tormentarla, soprattutto di notte, quando si alza a precipizio e corre piegata in due, fuori dalla stanza, come per fuggire dai terribili spasmi che la tormentano. Avrà avuto ragione il dottor Brett che ha giudicato la gravidanza nella norma?

La nascita di Ben

A dispetto delle parole del medico, tutti si rendono conto della diversità del feto alla sua nascita. Ben, così hanno deciso di chiamare il nascituro, non si può definire un bel bambino. È muscoloso, giallastro, lungo. Ha le spalle curve e la schiena ingobbita. La fronte è sfuggente e per capelli ha un ciuffo giallastro. Le mani sono grosse e pesanti. Gli occhi sono giallastri e opachi. Ha la sindrome di Down e il dottor Brett dirà di lui che è un bambino cibernetico. Ad Harriet sembra uno gnomo, uno spirito maligno o qualche altra creatura malefica. Memore di quello che ha passato quando l’aveva in grembo, non riesce a provare amore. Per lui prova solo pietà. Anche David, il padre perfetto, evita di toccarlo. I quattro fratelli lo fissano sbalorditi perché così diverso da loro. Alla nascita di questo bambino manca l’atmosfera festosa, il senso di trionfo, lo champagne. Tutti sembrano tesi, allarmati e mantengono le distanze. Ben è anche molto forte e manifesta molto presto la voglia di camminare da solo (lo farà a nove mesi) e quando non vi riesce scoppia a piangere con quel suo verso che sembra un ruggito o un barrito.

Ben diventa ingestibile

Crescendo Ben sviluppa un carattere aggressivo e violento. Rompe il braccio al fratello Paul, uccide un cane e un gatto, lanciando gridolini di trionfo. Quando la situazione degenera e non è più gestibile si decide di mettere Ben in un Istituto. In seguito a questa decisione Harriet non riesce a dormire per l’orrore e il senso di colpa. Amici e familiari la trattano come fosse una criminale, tutti la condannano in silenzio. Ben è stato portato in una località del nord dell’Inghilterra e presto Harriet decide di andare a trovarlo. Ma una volta raggiunto l’Istituto si rende conto che è un lager. Come gli altri ospiti anche Ben è sdraiato su un materasso di gommapiuma verde, privo di sensi perché sedato e imprigionato in una camicia di forza, circondato da escrementi. Harriet, contro il parere di tutti lo riporta a casa. Una volta tornato in famiglia quale sarà il futuro di Ben e dei suoi familiari? Di un Ben respinto da tutti?

La società e il diverso

Viene spontaneo pensare alle parole dell’autrice: “Se nel ventesimo secolo venisse al mondo un elfo, una creatura di un’ altra epoca? Nella nostra società apparirebbe “cattivo”, portatore di male”. Non tutti sanno che il portatore di Handicap ha una propria sensibilità, delle proprie emozioni e sentimenti. E come si scrive in Scienze tecniche mediche applicate all’Handicap, dell’Università Pontificia Salesiana, l’handicap non va giudicato come “carenza”, “mancanza”, “insufficienza” perché queste persone hanno altre capacità. Da qui il termine diversamente abili per definirli. Tali soggetti possono ottenere immensi benefici se sostenuti da progetti di sviluppo e di potenziamento delle loro qualità, con grandi vantaggi per la loro vita privata e sociale. Ciò non significa negare la diversità e la presenza di disabilità o menomazioni, ma vuol dire spostare il focus di analisi e intervento dalla persona al contesto, per individuarne gli ostacoli e operare per la loro rimozione. La finalità dell’inclusione è favorire condizioni di vita dignitose, inserendo e coinvolgendo queste persone in un sistema di relazioni soddisfacenti in modo che esse possano agire, scegliere, giacere e sentire riconosciuto il loro ruolo e le potenzialità di cui sono dotate.

Perché leggere “Il quinto figlio”

Questo romanzo fu pubblicato per la prima volta nel 1988 dall’autrice britannica Doris Lessing (1919-2013) insignita del premio Nobel per la letteratura nel 2007. Un premio perfettamente meritato perché in queste pagine l’autrice ci ha ha reso partecipi del tema profondo della diversità, oltre a tratteggiare un ritratto di donna, quello di Harriet, davvero molto toccante. Il romanzo è breve, consta di 176 pagine e non è suddiviso in capitoli. Questa scelta stilistica non appesantisce la narrazione, anzi, la rende molto coinvolgente, grazie a una scrittura semplice, piacevole e lineare che permette al lettore di apprezzarne ogni sfumatura, dai primi anni felici della coppia, alla nascita di Ben, dalle sue avventure, spesso divertenti, ai particolari più tragici e struggenti.

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L’autrice

Doris Lessing (1919-2013) è nata a Kermanshah, in Iran, e ha vissuto fino a trent’anni in Zimbabwe (allora Rhodesia). Nel 1949 si è definitivamente trasferita in Inghilterra. Ha vinto il premio internazionale Grinzane Cavour Una vita per la letteratura nel 2001 e il premio Nobel per la letteratura nel 2007.

Maria Civita D’Auria ha frequentato i corsi di archeologia, storia dell’arte e scrittura creativa presso l’Università Popolare Eretina e ha collaborato come giornalista esterna per la rivista NOIDONNE, MINERVA, EPOCA con interviste a personaggi di cultura e spettacolo. Attualmente scrive per i blog «mestierelibro», «Gli scrittori della porta accanto» e pubblica racconti per il blog «Writer Monkey». Ha vinto diverse edizioni dei concorsi letterari della Montegrappaedizioni di Monterotondo ed è arrivata più volte finalista per la stessa casa editrice. Invece è arrivata finalista con il racconto di “Gianna e Nicoletta” alla terza edizione del concorso letterario RacconTIAMO della Valletta edizioni. A giugno 2023 è risultata prima classificata al premio Nomentum Ars Primo concorso di scrittura creativa anno 2023 con il racconto I galeotti interamente in dialetto romanesco.

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Ancora un interessante “consiglio di lettura” di Maria Civita D’Auria, ospite ormai fissa di questa rubrica. Il libro è stato presentato all’interno della rassegna letteraria Libri e Tulipani nella primavera del 2023.

Navarra Editore

  • TINA MODOTTI Fuoco che non muore | Gabriella Ebano
  • Categoria: Romanzo
  • Anno: 2019
  • Collana: Narrativa
  • Pagine: 144
  • ISBN: 978-88-32055-24-5
  • Formato: 14×21 con foto b/n

Tina Modotti ed Elsa Morante per la prima volta insieme in un romanzo intimo ed emozionante, capace di intrecciare la materia storica alla finzione narrativa. Un incontro impossibile tra due anime elette: grandi protagoniste del ‘900 italiano, artiste indimenticate della fotografia e della letteratura, dalla vita tormentata e rivoluzionaria, pioniere del femminismo e delle lotte sociali.  

L’INCONTRO

L’idea iniziale del romanzo Tina Modotti. Fuoco che non muore parte con il racconto dell’amicizia fra la nota fotografa e la scrittrice Elsa Morante, frutto dell’immaginazione dell’autrice, Gabriella Ebano, anche lei fotografa e scrittrice. Dopo aver pubblicato svariati libri di denuncia per dare voce alle donne Gabriella Ebano si dedicata a un lungo lavoro di ricerca riguardo le biografie di Tina Modotti ed Elsa Morante. Immagina questo incontro impossibile ma verosimile, per concedere un diverso epilogo alla vita di Tina Modotti, come certamente lei stessa avrebbe voluto, facendola approdare in Italia, a Roma e incontrare questa giovane donna agli inizi della sua carriera letteraria. L’incontro tra le due artiste avviene su un tram affollato diretto alla stazione Termini. È il giorno dell’armistizio, l’8 settembre del 1943 e da questo momento Elsa e Tina iniziano a conoscersi, costruendo una solida amicizia, basata su grandi affinità intellettuali e politiche perché sono entrambe donne avventurose e anticonformiste. Così sullo sfondo della città eterna, le cui fotografie in bianco e in nero di Gabriella Ebano compaiono nel testo, le due donne si raccontano. Ora sostano a piazza Navona, ora al Campidoglio, ora al Colosseo e a villa Celimontana ma, in questi luoghi che l’affascinano, è soprattutto Tina a raccontare ad Elsa la sua esistenza rocambolesca, mentre Elsa le confida il tormentato incontro con il marito Alberto Moravia.

L’INFANZIA DI TINA

Difficile riassumere in poche righe la vita intensa di una donna che fu artista, guerriera, attivista politica. Assunta Adelaide Luigia Modotti, nota come <Tina>, nasce nel Borgo Pracchiuso a Udine il 17 agosto 1896, in una famiglia molto modesta aderente al socialismo. Il padre Giuseppe mantiene la numerosa famiglia lavorando come carpentiere, ma è un uomo deciso e pieno di interessi, molto diverso dalla madre Assunta Mondini che è rassegnata al lavoro di sarta, contenta del suo destino. Ne 1905, grazie alla sua intraprendenza, il padre emigra in America e per molti mesi la famiglia non ha sue notizie e neanche un suo sostentamento economico. Così nel 1909 Tina è costretta ad abbandonare gli studi e a tredici anni va a lavorare in una filanda, fino a dodici ore al giorno. Sempre a tredici anni inizia a frequentare lo studio fotografico dello zio Pietro, fratello del padre aiutandolo nel suo lavoro e molto probabilmente è qui che nascono i primi interessi per la fotografia.

VERSO LA CALIFORNIA

Presto Tina si rende conto che la vita a Udine, per lei, che ha sviluppato lo stesso carattere del padre, è troppo piatta così a diciassette anni, nel 1913, parte per la California per raggiungere il padre e la sorella Mercedes, destinazione: San Francisco. Molto presto si inserisce nell’intensa vita culturale che è in grande fermento tanto che, per lei, si aprono subito le porte del teatro e del cinema e recita anche film muti accanto a Rodolfo Valentino. Successivamente nascerà la sua passione per la fotografia. A San Francisco incontra Robo, il suo primo amore, un uomo dall’aspetto affascinante. Ha i capelli lunghi e veste in maniera stravagante. Ma quello che a lei piace di più è il suo carattere paziente. Vanno a vivere insieme a Los Angeles e lui la introduce nell’ambiente bohèmien del luogo dove incontra artisti e intellettuali che considerano la società borghese molto pericolosa.

IL MESSICO

Robo è molto attratto dal Messico e decide di trasferirsi lì, ma dopo poco tempo il suo arrivo, si ammala di vaiolo e muore. Tina apprende questa tragica notizia mentre sta raggiungendo Robo a Città del Messico dove soggiorna solo per alcuni mesi, perché la notizia della morte del padre la costringe a ritornare in California. Dopo la relazione con Robo nella vita di Tina entrerà il fotografo americano Edward Weston, anche se fisicamente non è attraente come lo era Robo. Edward piace a Tina perché con lui si sente in perfetta sintonia, nonostante sia sposato e abbia quattro figli. Così inizia a posare per lui diventando ben presto la sua amante. Ed è con lui che scopre la fotografia. Anche Edward è attratto dal Messico così Tina insieme a lui vi si trasferisce nel 1923 e inizia a militare nelle fila del partito comunista e collaborare come fotografa, al settimanale degli artisti «El Machete», impegnata in una denuncia civile, dimostrando di essere dalla parte degli umili e dei poveri. I suoi scatti si soffermano sulla vita dei campesinos, sui primi piani di bambini seduti per strada, di pescatori, di donne che lavano i panni o che allattano: i loro sguardi significativi, sorridenti o persi parlano per loro. Nel frattempo però il rapporto con Edward entra in crisi a causa della eccessiva gelosia di lui e i due si separano.

JULIO ANTONIO MELLA

Poi, una sera di giugno del 1928, Tina conosce nella redazione del giornale «El Machete» Julio Antonio Mella, anche lui collaboratore della rivista. Ne è subito attratta perché Julio con i suoi riccioli neri e gli occhi vivi e sensuali è incantevole. Ma Tina nei suoi confronti non sente solo attrazione fisica ma molto di più. Insieme condividono lo stesso impegno politico tanto che Tina prova un senso di arricchimento e partecipazione. La permanenza in Messico le permette di stringere amicizie importanti come quella con Diego Rivera e Frida Kahlo. Invece con Julio la storia si interrompe in maniera drammatica perché lui muore sotto i suoi occhi il 10 gennaio del 1929. Per Tina è una tragedia, e sarà ingiustamente accusata dell’omicidio del suo uomo. Nonostante tutto continua la militanza politica per il partito comunista tanto che viene espulsa dal Messico.

IN GIRO PER L’EUROPA

Per un po’ di tempo Tina viaggia in giro per l’Europa. Raggiunge Berlino e poi si stabilisce a Mosca dove abbandona la fotografia per scegliere la militanza politica e occuparsi dell’ospedale, dei moribondi, delle sale operatorie e delle trasfusioni sul campo di battaglia. Dichiara a tutti di aver fatto questa scelta perché non si possono fare due lavori così impegnativi contemporaneamente. Infine nel 1935 Tina è in Spagna insieme a Vittorio Vidali che conosce da tempo anche se è un tipo immodesto, audace, risoluto e facile alla zuffa, quando beve troppo. Il periodo spagnolo è molto drammatico perché c’è la guerra civile, troppi morti e tante sofferenze per la popolazione. Dopo la vittoria dei militari di Franco inizia la lunga dittatura.

PERCHÈ IL FUOCO NON MUORE

Tina desiderava rientrare in Italia per riabbracciare sua madre e sua sorella ma nel 1939 torna a Città del Messico dove muore nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1942 a soli quarantasei anni, secondo alcuni in circostanze sospette o a causa di un infarto. Pablo Neruda pensando alla sua morte prematura scriverà una poesia a lei dedicata in cui un suo verso recita

perché il fuoco non muore.

E il ricordo di questa donna è difficile da cancellare perché è stata una delle più grandi artiste del novecento oltre che operaia, attrice, militante politica e antifascista, ancora viva tra noi. Grazie alle sue opere. Tina sarebbe stata contenta di essere definita in così tanti modi, perché a lei non è mai piaciuto essere considerata solo per la sua bellezza. E Tina è stata bella davvero: bruna, con gli occhi scuri, sensuali e profondi che rendono il suo fascino irresistibile, grazie anche all’eleganza innata.

Anche Elsa è stata bella, anche se di una bellezza diversa. È minuta e ha gli occhi chiari da gatta dallo sguardo fermo, attento e brillante. Sulla folta chioma ricciuta ha un ciuffo di capelli bianchi, che le dà un’aria di insolita maturità. Ma al di là dell’aspetto fisico piuttosto diverso, le due donne sono molto simili non solo per i loro caratteri ribelli, ma anche perché entrambe hanno dovuto faticare molto per affermarsi in un mondo fatto a misura degli uomini, ma ci sono riuscite.

IL ROMANZO

Lo stile del libro di Gabriella Ebano è chiaro e scorrevole, ma questo non significa che non sia impegnativo. Il lettore leggendo gli avvenimenti di quegli anni, dall’Italia, agli Stati Uniti, al Messico, alla Russia e poi la Spagna, il cinema, appena nato, la fotografia, l’attivismo politico, si forma un bagaglio culturale non indifferente. Il libro si fa leggere volentieri anche perché non è voluminoso: centotrentotto pagine corredate da una prefazione di Giuliana Scirè e una postfazione firmata dall’autrice stessa, pagine introduttive e appendici che aiutano a capire meglio il mondo di Tina. Il racconto si segue anche grazie a un indice ben fatto oltre a ben ventitré fotografie in bianco e nero. Forse la più significativa è quella di piazza Navona, dove avviene il primo appuntamento tra Elsa e Tina, che giudica la piazza come la più bella del mondo. Queste fotografie fanno parte di un reportage su Roma fatto da Gabriella Ebano agli inizi degli anni Novanta che trae spunto da un suo lavoro Universitario. Anche per questo il libro è  originale e pieno di fascino. Particolari che non sfuggono al lettore attento, rapito dalla lettura, dalla vita avventurosa della protagonista e dalla visione delle sue opere e dei luoghi in cui ha vissuto.

L’AUTRICE

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Gabriella Ebano, nata a Roma, laureata in Lettere, si dedica alla fotografia dalla fine degli anni Ottanta, quando vive e lavora prima a Bergamo e poi a Milano. Segue corsi e seminari tenuti da Gianni Berengo Gardin, Ferdinando Scianna, Giuseppe Leone, Giuliana Scimè. Svolge attività di ritrattista e fotografa di scena per il Teatro Donizetti di Bergamo e nella stessa città dirige la galleria fotografica “Il filo di Arianna”. Dal 1997 si trasferisce in Sicilia, terra natale del padre, prediligendo in particolare la fotografia sociale ed etnografica. Nel 2005 pubblica il libro Felicia e le sue sorelle. Dal secondo dopoguerra alle stragi del ’92-’93: venti storie di donne contro la mafia (Ediesse). Insegna fotografia, conduce progetti sulla legalità e laboratori di scrittura creativa presso scuole pubbliche ed istituzioni private. Per Navarra editore ha già pubblicato Le mie signore di Sumpetar. Cronaca di volontariato nei pi profughi della ex Jugoslavia (2015) e Insieme a Felicia. Il coraggio nella voce delle donne (2016)

Recensione di Maria Civita D’Auria

Maria Civita D’Auria ha frequentato i corsi di archeologia, storia dell’arte e scrittura creativa presso l’università popolare eretina e ha collaborato come giornalista esterna per la rivista NOIDONNE, MINERVA, EPOCA con interviste a personaggi di cultura e spettacolo. Attualmente scrive per il blog «mestierelibro», per «Gli scrittori della porta accanto» e pubblica racconti per il blog «Writer Monkey». Ha vinto diverse edizioni dei concorsi letterari della Montegrappaedizioni di Monterotondo ed è arrivata più volte finalista per la stessa casa editrice. Invece è arrivata finalista con il racconto di “Gianna e Nicoletta” alla terza edizione del concorso letterario RacconTIAMO della Valletta edizioni. A giugno 2023 è risultata prima classificata al premio Nomentum Ars Primo concorso di scrittura creativa anno 2023 con il racconto I galeotti interamente in dialetto romanesco.

Foto MESTIERELIBRO

Quaderno proibito

Pubblicato: 22 Maggio 2023 in News

libriallospecchio

Ho fatto male a comprare questo quaderno, malissimo. Ma ormai è troppo tardi per rammaricarmene, il danno è fatto. Non so neppure che cosa m’abbia spinto ad acquistarlo, è stato un caso.Io non ho mai pensato di tenere un diario, anche perché un diario deve rimanere segreto e perciò, bisognerebbe nasconderlo a Michele e ai ragazzi.

Inizia così il romanzo di Alba de Céspedes, scrittrice che negli anni ’50 con i suoi romanzi, primo fra tutti Dalla parte di lei, anticipò tematiche femministe che ancora oggi sono di grande attualità.

Arrivata in Italia con il padre, un ambasciatore cubano, pur non avendo una cultura certificata da studi regolari (cosa di cui l’autrice si rammaricava), si distinguerà per la sua scrittura moderna e per i contenuti d’interesse socio-culturale.

Quaderno proibito l’ho scovato su una bancarella romana nella bellissima ristampa degli Oscar Mondadori del 1980. In copertina un’immagine del…

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Post di Giusi Radicchio

Titolo: Storie dell’altrove

Sottotitolo: Racconti forse che sì, forse che no

Autore: Franco Piol

Editore: Scatole Parlanti

Collana: Voci

Prezzo di copertina:  Euro 15,00

In commercio dal: 14 ottobre 2022

Pagine: 172 p., Brossura

EAN: 9788832815221

I RACCONTI DELL’ALTROVE

I racconti
Le raccolte di racconti in Italia non sempre hanno avuto il giusto riconoscimento, né da parte del pubblico, tanto meno degli editori, nonostante la riconosciuta tradizione letteraria italiana.

Storie dell’altrove non lascia dubbi su quanto stiamo per leggere: un libro fatto di storie che raccontano un mondo scomparso, oltre l’altrove, ma che ritroviamo sfogliando, una dopo l’altra, queste pagine. La lettura coinvolge e trascina in quella che possiamo considerare come la cifra narrativa di Piol, nella capacità di alternare prosa, poesia, canto, teatro.

Una struttura ben organizzata, per dare modo al lettore di non disorientarsi e apprezzare il contenuto poliedrico di “racconti forse che si, forse che no”, come recita il sottotitolo.

Dieci storie, ognuna degna di un suo titolo e di un epigrafe d’autore, per introdurre il racconto con le assonanze giuste, rispetto alla definizione di altrove.

Chiude ogni storia la dedica a un amico, un familiare, a conferma che queste pagine non sono altro che la vita, rappresentata in ogni sfumatura e colore così come un dipinto.

E proprio per per dare risalto alla pittura, Franco Piol ha voluto doppiamente omaggiare l’amico Giancarlo Bellisini, un artista che purtroppo ci ha lasciato troppo presto, riproducendo un suo dipinto come immagine di copertina, oltre a dedicargli un racconto, visto come sintesi prospettica del loro incontro in questa vita, e nell’altrove. A mio giudizio il racconto più visivamente poetico.

Quel rosso e quel giallo trasudanti

L’arrivo inaspettato di un invito alla retrospettiva del pittore Gianmaria, con i suoi colori rossi e gialli trasudanti, porta il vecchio amico a riflettere sul tempo che scorre veloce e si trascina via la vita, ma che non mancherà di presentarsi immutabile nell’altrove.

L’anziano narratore si onora di rispettare l’invito. La giornata è fredda e lui raggiunge l’ingresso laterale del Palazzo delle Esposizioni, un portoncino malandato che si apre con la sola pressione della mano: lo accoglie il buio e nient’altro, poi una lunga fila di quadri informi e incolori, ma basta avvicinarsi perché una luce folgorante accenda lo spazio nel suo allargarsi, ritrarsi, estendersi, per esplodere infine nei colori della galleria: il blu di un’onda gigantesca, cenni di rosso e di giallo intrecciati con fili d’argento, mutevoli paesaggi marini, il circo e il barrito di Ludmilla, il violinista e l’orchestra, incompiuti versi e le parole di Perfect day a chiudere lo spettacolo.

Il TITOLO: Storie dell’altrove

Dice l’autore: “L’altrove un termine aperto ad ampie interpretazioni, richiede una definizione simile a un labirinto. È come essere catapultati in un meandro a cercare risposte e non trovarle, o anche trovarne tante. L’altrove è una sottile linea inesistente che separa la realtà da quello che sai e credi di sapere, da quello che sei e credi di essere. Oltre quel confine trovi quanto volevi dire e non hai detto, quanto avresti voluto fare e non hai fatto, la vita che avresti voluto vivere e non hai vissuto, quello che avresti voluto tanto amare e non hai amato.

La linea allora è simile alla luce che si spegne e si accende e si riesce a immaginarla o soltanto a metterla a fuoco appena per un attimo, in bilico tra luce e buio, sospesa tra la musica dell’universo e la poesia”.

I TEMI

Di cosa parlano le storie dell’Altrove, quale il filo conduttore che le lega? Sono storie che non hanno il pathos dei drammi né introspezioni psicologiche, ma fanno riflettere, trasmettono leggerezza e un trasporto emotivo capace di rendere fluida e coinvolgente la lettura.

Spesso questa leggerezza, in termini di valori narrativi, ha inviato al paragone con Calvino che, nelle sue Lezioni Americane, scrive: « leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».

I personaggi dell’altrove sono gli emarginati, capaci anche loro di entrare in punta di piedi in uno scenario costruito con abile maestria, perché anche agli ultimi sia concesso di lasciare un segno, un ricordo, un’immagine a rilievo fatta di luci e ombre, di bene e male, di reale e fantastico, così come avviene per per i racconti di un grande maestro come Buzzati capace, con abile tecnica di smontare il banale quotidiano, quello che appare come reale, per addentrarsi nella verità che in esso si nasconde.

Ma chi sono questi ultimi, in quali spazi muovono le loro storie? Difficile soffermarsi solo su alcuni di loro perché tutti hanno dignità di protagonisti.

Presenze

A presentarsi per primo è il signor P. Gli fa da cornice il mondo poetico in cui si è rinchiuso, con la dolce signora Zanon che lo accudisce, la piccola Mariuccia, l’alunno Menichetti simpatico e irriverente, la tartaruga Masina, i fiori del giardino. Siamo davanti a un delicato quadro in cui risalta la figura di questo insegnante mentre rientra tutti i giorni in casa. Il signor P si sente come perseguitato da una presenza, da qui il titolo, a cui non riesce a dare una forma se non rispecchiandola in Giselle, una leggera farfalla che svolazza danzando in casa e sui fiori. Lei gli fa compagnia, lui le racconta la sua storia sulle note di un long play, ultimo regalo della sua amata Arianna. E così fra un verso poetico e una melodia Giselle gli allevia la solitudine.

Ite missa est

Esemplare, per il suo simbolico oscillare fra reale e surreale, è il quarto racconto, Ite missa est, introdotto dall’epigrafe lapidaria di A. Camus: Ciò che importa è altrove.

Il nostro “cantastorie” per allestire la sua teatrale messinscena sceglie ‘La Basilica’, sfondo adeguato a un cerimoniale religioso, e ne inserisce i protagonisti: sua Eminenza avvolto in un enorme drappo rosso, le monache angeli neri, il coro degli adolescenti che spiccano sul bianco del marmo. Rosso, nero, bianco, tre colori fortemente simbolici, come sempre più simbolico diviene il racconto nel suo procedere.

Le monache, umili e servili verso sua Eminenza, diventano torve e minacciose nei confronti del coro fra cui spicca Maria, seducente fanciulla dai capelli biondo-rame. Fino a quando il giovane coro si ribella alla sacralità del luogo e lo sfida con un canto profano a cui fa eco la madre superiora intonando il Cantico dei cantici in un parossistico crescendo. A partire da questo momento lo stesso linguaggio lessicale attinge a termini sempre fortemente simbolici come ‘alto tradimento, strategia della tensione, depistaggio’ dove il peso delle parole richiama uno specifico clima politico e nulla è lasciato al caso, mentre alle figure negative l’autore non lascia scampo né via salvifica.

Lezione al Forlanini

Il protagonista del racconto Lezione al Forlanini è sempre un giovane insegnante che opera nella struttura ospedaliera negli anni in cui la tubercolosi è ancora una malattia mortale. In quegli anni si sperimentavano nuovi protocolli che ribaltavano il concetto della malattia e ai pazienti era concesso ampio spazio al movimento, come la corsa, o il nuoto. Con queste procedure abbinate a nuovi farmaci si dava ai ragazzi una certezza di guarigione. Emerge da questo racconto, come spiega l’autore, la contrapposizione tra gli ‘esterni’ e i ‘ricoverati’, una frattura insormontabile perché gli esterni erano gli altri, l’altrove, quelli che godevano di tutto: della salute, della libertà, della gioia, della famiglia, mentre gli interni si sentivano prigionieri della malattia, relegati in quella che sentivano come prigione.

I malati accoglievano gli ‘esterni’ con il sorriso, ma nel loro intimo odiavano quello che rappresentavano e quanto a loro era negato. La realtà all’interno della Casa di cura sottolineava questa separazione e la battaglia fatta dagli operatori consisteva nell’avvicinare questi due mondi per riuscire ad abbattere una barriera quasi insormontabile.

Nel momento in cui il giovane e poetico protagonista del racconto giunge al Forlanini lo accoglie una pioggia battente e lui sublima l’evento atmosferico ascoltandone il ritmo, riportandolo in versi per imporre poi ai suoi studenti il silenzio, l’ascolto dello scroscio dell’acqua e il fare attenzione a quello che ha da suggerire la pioggia o il sussurrare degli alberi.

Vi chiamerò allora Primavera, color del muschio tenero,della viola timida, dell’albero germogliato, mentre cantate di un’estate a venire , guardandovi il petto scarno, l’osso malato. E quel vostro gemito raccoglierò e lo farò mio, anime inquiete, rapprese piangendo una serena pensa, un fremito di lontana ebbrezza che già sapete non potervi sfiorare più.

Maternale

A introdurre il racconto Maternale, quello più viscerale, abitato da uno dei personaggi più umani e spiazzanti della raccolta, sono le parole di Giorgio Caproni

Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai.

Una madre alle soglie della morte svela al figlio un segreto sul padre da lui mai conosciuto. La madre però non spiega, lascia al figlio l’eredità del dubbio. Chi sarà davvero questo padre, chi potrebbe essere? Questo il nocciolo del racconto, un punto interrogativo sospeso. Il figlio nonostante la bugia non ha mai sofferto l’abbandono; la madre gli ha raccontato la storia bellissima di un padre eroe di guerra, perché crescesse con questo riferimento ideale da trasferire ai figli, in modo da avere la conoscenza di un nonno di cui andare fieri.

Questa storia lascia domande sospese, non concluse, volendo fare il verso a Pirandello. L’autore lancia il sasso, l’interrogativo incerto e poi si nasconde, per riflettere lui stesso, provare a dare una sua interpretazione o risposta in base al proprio vissuto e allo stesso tempo dare a chi legge la possibilità interattiva di sentirsi protagonista, perché come si dice: l’autore non dà risposte ma pone quesiti.

AMBIENTAZIONE

Circoscritti nella città di Roma, con la sua periferia desolata, gli ambienti in cui si muovono i personaggi dell’Altrove hanno connotazioni diverse nel loro rispecchiare il personaggio, nella personale visione del proprio esistere. E così l’autore con i tre racconti delle Madonnare dipinge un’ambientazione tanto lontana nel tempo da sembrare irreale.

Le madonnare del Rione Ponte

Alla sora Cencina e alla sora Betta sono intitolati due racconti, ma le madonnare del Rione Ponte sono tante, Giulia la Nasona, la sora Cesira (la pizzettara), Memma l’ostessa, la sora Carolina, Menica la strabica, Vittoria detta ‘a fatalona. Ciascuna ha una sua storia e ogni storia sbuca da un angolo del Rione Ponte: da via dei Coronari a Tor di Nona, da via de Banchi Vecchi a via di Panìco. Le Madonnare sono tutte pronte per il pellegrinaggio al Santuario del Divino Amore per l’annuale ringraziamento alla Madonna.

A fine lettura rimane la visione di una periferia lontana, scomparsa anche lei nell’Altrove.

L’AUTORE franco-piol-1

Franco Piol, operatore culturale presso la Regione Lazio, già giovanissimo si dedica alla scrittura; compone diverse raccolte poetiche e racconti brevi. Alla fine degli anni Sessanta inizia la sua avventura nel teatro come regista e attore. Nel 1968 Piol incontra Roberto Galve, pittore, grafico e regista argentino, col quale nel 1971 fonderà lo storico Gruppo del Sole, prima realtà romana di laboratorio permanente di animazione artistica e teatrale, radicato sul territorio della grande periferia romana.
Dal 1975 Franco Piol diviene autore di tanto teatro per ragazzi, avvalendosi di collaborazioni autorevoli. Dal 2008 si dedica nuovamente alla poesia pubblicando brani sparsi in molte antologie fino a pubblicare nel 2013 Poetesie in concerto per “i tipi” delle Edizioni Libreria Croce, intensificando il settore di racconti brevi editati, anche questi, in molte apposite antologie. Nel dicembre 2016 con Alter Ego Edizioni pubblica Tana libera tutti e nel dicembre 2017 Gente del tempo che verrà. Nel dicembre 2018 Teatro monello, raccolta di testi teatrali dedicati ai bambini.

 

Ritornano i consigli di lettura di Maria Civita D’Auria.

Si tratta questa volta dell’esordio letterario di Barbara Chiappa, già premiata per i suoi racconti, che si cimenta per la prima volta con la forma romanzo, dando un’eccellente prova di scrittura.

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L’INGORDA

Autore:  Barbara Chiappa

Edizioni: Ianieri

Collana: Notturni

Formato: 13×21 cm

Edizione: novembre 2021

Pagine: 216

Prezzo: 17 euro – formato Kindle 9,99 euro

ISBN: 979-12-80022-79-0

Leggi un estratto

L’Ingorda è il romanzo di esordio di Barbara Chiappa, di carattere storico, ispirato alla vita di Louise Weber, in arte “La Goulue”.

La famiglia di Louise

Louise Joséphine Weber (1866-1929) nasce a Clichy-la-Garenne nel Basso Reno, e vive un’infanzia e un’adolescenza difficili. La madre Madelaine Coutade fa la lavandaia. Ogni mattina, con il suo sacco pieno di panni dei signori da lavare, si dirige verso la riva della Senna insieme ad altre lavandaie che maledicono il mondo intero. Madelaine ha ribrezzo per questo lavoro e odia suo marito per la vita che è costretta a fare. Però non si rassegna e spera in una rivincita. Dagobert, il marito, è un uomo bonario e un bravo carpentiere. Tutte le sere torna a casa sporco di malta e calce, peccato sia sempre completamente ubriaco. E questo comportamento scatena l’ira di Madelaine. La piccola Louise ha una sorella di nome Marie Anne, molto composta e dedita alle faccende di casa. Il fratello Henry, invece, è una testa calda e dà fastidio a chiunque, soprattutto a Louise che chiama culona.

L’abbandono

In effetti Louise è una bambina un po’ paffuta e goffa. Di questi tre figli, Louise è la meno amata, anche se è quella che sente più bisogno di affetto. La madre, che non corrisponde tutto questo amore, è la sorgente di quel senso di vuoto che accompagna Louise per tutta la vita amareggiando la sua esistenza. La madre, oltre ad essere lavandaia, consegna a domicilio i panni stirati nelle case dei signori, confezionandoli come dolci di pasticceria. Una mattina Madelaine bussa alla porta di un cliente nuovo, il signor Chambres, un uomo non giovane, scuro di capelli, un po’ grasso; con lui entra subito in confidenza anche se l’uomo, in breve tempo, mostra l’intenzione di sedurla. Madelaine non rifiuta le sue avance e i due continuano ad amarsi per diverso tempo. Ben presto Madelaine forma una nuova famiglia con il signor Chambers, e dal loro rapporto nasce una bambina. Questo nuovo evento la porta, in un giorno qualunque, a lasciare i suoi tre figli e il marito, fonte di tanta infelicità.

Il talento per il ballo

Dagobert cerca di essere un buon padre tanto che asseconda le inclinazioni della figlia per il ballo. Louise per tutto il giorno si lancia in piroette, passetti e salti e presto partecipa a uno spettacolo per l’infanzia all’Élysée Montmartre, patrocinato dall’attrice Céleste Mogador e dal già celebre Victor Hugo, dimostrando un precoce talento per il ballo e la Mogador invita il padre di Louise a farle continuare gli studi di danza. Così la ragazza comincia a sognare di diventare una vera ballerina. Ben presto però accade un fatto inaspettato per i Weber.

Dallo zio paterno

Dagobert nell’estate del 1870 viene reclutato per combattere nella guerra contro la Prussia. I tre bambini vengono affidati a un istituto religioso, quello delle suore della carità in Rue Du Bac dove trascorrono un periodo abbastanza felice. Louise ama molto le suore per cui è contenta di questa sistemazione. Però Dagobert viene ferito in battaglia e subisce l’amputazione delle gambe, ma non sopravvive. Così i tre fratelli si trasferiscono a Saint-Ouen a casa dello zio paterno Georges. Quest’uomo è solo, non si è mai sposato, forse anche a causa di una menomazione al braccio sinistro dovuta alla poliomielite, che gli ha evitato l’arruolamento. Lo zio Georges con i piccoli Weber cerca di formare una nuova famiglia, ma Henry si rivela sempre più ribelle e trova di continuo occasioni di litigio. Così viene allontanato da Saint-Ouen. Lo zio diventa molto tenero con le nipoti, ma la notte le molesta chiedendo loro delle prestazioni sessuali. Louise pensa che questo è lo scotto da pagare per la permanenza in casa del parente, che si è offerto di accogliere le due orfanelle.

La fuga a Parigi

Louise non vuole stare al  gioco dello zio e decide di andare via. Quando giunge a Parigi è Jean che le offre il suo aiuto, lo ha conosciuto quando aveva 13 anni e il giovane faceva ancora il “soldatino”. Jean le trova una piccola stanza in cui alloggiare, addossata al Sacre Coeur. Iniziano a stare insieme ma a causa delle velleità di Louise, che vuole frequentare locali notturni e ballare, la convivenza finisce male. Louise comincia nuovamente ad avvertire quel senso di vuoto già provato durante i primi anni della sua vita che ha cercato di colmare con il cibo e con il sesso, passando tra le braccia di tanti uomini.

Mouline de la Gallette

Tra questi c’è Charlot, che le apre le porte del successo. Questi è un ragazzo grosso, muscoloso che Louise conosce al Mouline de la Gallette, uno dei locali più peccaminosi della città. Qui l’atmosfera è spensierata e allegra. Si mangia, si bevono fiumi di vino, si canta e si balla e si ascolta musica. Inizialmente Charlot le fa da accompagnatore e ballano insieme quasi tutto il giorno. Louise ama questi locali, perché è grazie a questo clima che può dare sfogo alla vivacità del suo carattere. Si lancia nelle quadriglie, cominciando anche lei ad alzare la gamba in galop, movimento con il quale le più sfacciate lasciano intravedere la sottogonna di pizzo e trine. Presto Louise va a vivere con Charlot e grazie alle sue conoscenze posa per il famoso pittore Renoir. Un giorno mentre balla, come sempre al Moulin de La Gallette, viene notata da Ferdinando Beert, in arte Fernando che vuole Louise come ballerina per uno dei suoi numeri al circo di cui è direttore. Louise accetta molto volentieri. Pochi giorni dopo, sul fondo dei cartelli che tappezzano i muri di Parigi, tra gli altri artisti, compare anche il suo nome.

L’incontro con Touluse-Loutrec

Tra un ballo e l’altro, diventa famosa in città e presto torna al Mouline de la Gallette come ballerina ufficiale. Adesso Louise è sempre più disinvolta, mostra le gambe nude sotto i merletti della sottana e provoca gli uomini che si trovano tra il pubblico, facendo volar via i loro cappelli dalla testa con un movimento secco del piede. A questo punto conosce Touluse-Loutrec, il petit home, artista proveniente da una delle migliori famiglie di Parigi che si è insediato nel discutibile quartiere di Montmartre. Presto comincia a frequentare il suo atelier, perché ne diviene la modella. Dopo aver posato per Renoir, nota la profonda differenza di carattere fra i due artisti. Mentre il primo si è dimostrato chiuso e freddo, Touluse non fa altro che parlare, ridere e scherzare. I due diventano grandi amici.

La Goulue al Moulin Rouge

Touluse vuole far ballare Louise al Moulin Rouge che ha aperto i suoi battenti il 6 ottobre 1889. Per la gioia dei due uomini d’affari Joseph Oller e Charles Zidler il locale diventa il più grande ritrovo notturno della capitale. Ai piedi delle colline di Montemartre il locale è riconoscibile tra mille perché è completamente rosso ed è un mulino dalle grandi pale mobili. Anche l’interno è lussuoso ed eccessivo. Per l’esibizione di Louise, Toulouse ha preparato un manifesto dove la donna è raffigurata su fondo giallo, circondata da silhouette nere con il nome Goulue scritto al centro. Louise mentre balla è spettacolare, e coinvolge il suo pubblico. Passa tra i tavoli, siede sulle ginocchia degli uomini, beve dai bicchieri mezzi pieni. Il pubblico maschile va in visibilio. Si alza in piedi, batte le mani e urla: “Goulue, Goulue!” Quando Louise si ritira nel camerino prende coscienza che ormai è una donna molto lontana dalla piccola giovane fanciulla, un po’ goffa e impacciata che si affacciava sui primi palcoscenici. Ormai è la Goulue, l’ingorda, ed è la regina del Can-Can.

Una volta coronato il suo sogno, quale sarà la vita di Louise Weber?

La storia dell’ingorda si rende interessante per il modo di affrontare vari aspetti: quello familiare, quello della situazione femminile (le donne cominciano ad affrancarsi dall’uomo), quello pittorico e quello teatrale, dal momento che negli anni della Belle Epòque a Parigi i teatri vivono il loro massimo splendore. In una Parigi in pieno sviluppo sociale, culturale e artistico, che in Francia dura dal 1870 fino alla seconda guerra mondiale, la gente scopre il piacere di uscire dopo cena, chiacchierare nei caffè, assistere a spettacoli teatrali. E tra il pubblico più scelto, vi sono anche i cosiddetti bohèmien, pittori squattrinati, che girano per le strade di Parigi alla ricerca di modelle, spesso prostitute. La stessa Louise è stata una di queste.

Barbara Chiappa è stata in grado, usando una scrittura visiva, di sottolineare il percorso narrativo attraverso lo sguardo, di riportare in vita personaggi distanti nel tempo, ma circondati da magiche atmosfere. Un racconto dove l’uso dei sensi rende vivida ogni scena.

La bambina affondò la forchetta sulla punta, ne tagliò un bel pezzo e lo mise in bocca, vorace. Sentì subito la cannella e un po’ dell’acido delle mele, poi irruppero la crema pasticcera e la sfoglia croccante, che le squarciarono il palato. Non aveva mangiato mi nulla di così buono.

Lo stile del racconto è scorrevole nonostante i tanti personaggi che lo animano e i molteplici avvenimenti che si susseguono a ritmo sostenuto. La lettura non risulta mai noiosa, al contrario, il lettore attratto dalle avventure di Louise e dalla capacità narrativa dell’autrice, sfoglia vorace, direi quasi con ingordigia, dalla prima all’ultima pagina, rapito dalle vicende di questo splendido ritratto di donna.

L’autrice

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BARBARA CHIAPPA è Laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università di Roma “La Sapienza” e in Scienze dell’Educazione presso l’“Istituto Progetto Uomo, Università Pontificia Salesiana”, gestalt counselor a mediazione artistica e drammaterapeuta, coordinatore e formatore in servizi dedicati a persone svantaggiate e docente di scuola superiore di secondo grado. Seconda classificata nel 2014 con il racconto ‘O vascio al “Premio Arthè” e prima classificata nel 2019 nell’ambito della manifestazione “Liberi sulla carta” con il racconto Confini. Dal 2015 è giurata di “Librinfestival”, maratona letteraria che premia i mestieri del libro. L’ingorda è il suo primo romanzo.

 
 

UN NUOVO E ORIGINALE CONSIGLIO DI LETTURA DI MARIA CIVITA D’AURIA, LA NOSTRA AMICA CHE AMA I LIBRI, LA STORIA DELL’ARTE E LA SCRITTURA, MA AMA SOPRATTUTTO LAVORARE CON I DISABILI DEL PUNGIGLIONE

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La tatuatrice gentile è il romanzo di esordio di Lucille Ninivaggi, una tatuatrice milanese che in poche pagine, poco più di cento, ha scritto una storia originale e pregna di significati.

… chiusa nella sua cameretta, cerca di evitare le grida. Preme forte il palmo delle mani sulle orecchie, ma il suono degli strilli è tanto acuto che niente può fermarlo. Allora immagina di essere una bambina con orecchie lunghissime, come quelle dei cani che le piacciono… Quando non pensa di essere una bambina-cane, Lara si vede come un uccello, leggera e colorata.

L’infanzia infelice

La protagonista è Lara una ragazza milanese che vive in un quartiere popolare di questa città e invidia le sue amiche che abitano in case eleganti. Ma l’infanzia di Lara è infelice anche a causa della sua famiglia. La madre è molto impegnata con più lavori per poter crescere i figli, inoltre Lara non ha mai conosciuto il padre che un giorno è sparito e non è più tornato. Il fratello ha una vita indipendente e dorme spesso fuori casa.

Le peonie di nonna Ada

L’unico sostegno in famiglia è la nonna Ada, da cui Lara si rifugia ogni volta che può, dal momento che le abita vicino. La nonna fa la custode in un palazzo e cura con dedizione il giardino del condominio, facendo crescere bellissime peonie, i fiori che preferisce perché secondo lei sono fiori armoniosi e crescono liberi. È la nonna che si rende conto per prima della predisposizione di Lara per il disegno. Lara, difatti, ama disegnare o inventare nuovi mondi dove rifugiarsi nei momenti più bui della sua infanzia.

La passione per il disegno

Così quando Lara inizia a frequentare la scuola media è la nonna a convincerla a partecipare a un concorso di disegno bandito dalla scuola stessa per realizzare il logo di un’associazione che si occupa di gestire cani per i non vedenti. Lara vince il premio. La nonna è la sola a esultare dalla gioia perché la madre e il fratello di Lara, come sempre, sono assenti. Nonostante tutto, in questo momento, Lara fa una scelta importante per il suo futuro perché decide di iscriversi al liceo artistico, per non smettere mai di disegnare.

La carriera

Da adulta, invece, è costretta a destreggiarsi fra diversi lavori per vivere. Dalla pasticcera alla cameriera, dalla commessa alla baby sitter, ma non è mai contenta perché non si sente adatta a ricoprire questi ruoli così precari. Poi finalmente arriva la svolta perché un’amica le propone di entrare nella sua azienda che si occupa di moda. Presto Lara viene notata per le sue capacità e da stagista passa ad affiancare un art director, per imparare il mestiere e in breve tempo fa una discreta carriera.

La scelta

Nonostante tutto Lara non è soddisfatta perché il sogno della sua vita è fare la tatuatrice, per tornare, con i suoi disegni, a raccontare storie, anche se questa volta lo farà sulla pelle delle persone che si rivolgono a lei. Così trova il coraggio di lasciare un posto di lavoro sicuro e accetta la proposta di un suo amico che conosce i tanti sacrifici che Lara ha fatto per raggiungere il suo obbiettivo. Per esercitare il mestiere di tatuatrice il ragazzo le propone un piccolo spazio in un angolo del suo studio che è poco, ma Lara è contenta perché può finalmente cimentarsi nella sua arte. In questo studio lavora con Gabriele che ha conosciuto a una festa ed è subito diventato come uno di famiglia. Insieme sono una coppia di amici perfettamente in sintonia.

Disegnare storie

Le persone che frequentano lo studio sono soprattutto donne. E Lara prima di tatuare vuole conoscere le storie della loro vita, che è spesso molto dolorosa. Lei le ascolta con la stessa attenzione con la quale nonna Ada curava le sue piante. C’è Chiara, che è stata violentata da due balordi rimasti impuniti. E lei dopo cinque anni ancora li cerca nei volti degli uomini che incontra per strada. Si è recata nello studio di Lara perché vuole chiudere definitivamente questa storia che l’ha ferita per troppo tempo. Poi c’è Valentina alla quale è morta la mamma e senza di lei è difficile andare avanti. C’è Luca e Francesca che hanno una figlia di nome Sole, che è nata con un disturbo congenito che le impedisce di respirare da sola. Infine c’è Sara che è stata abbandonata dal marito.

La rinascita

La Tatuatrice traccia immagini di donne ornate di fiori o strette in un abbraccio, ma tatua anche uccellini colorati, porte o scale in segno di rinascita, perché Lara con il tatuaggio, che non è solo un disegno ma è anche una storia, un ricordo, vuole liberare queste donne dal dolore. Con il suo disegno le aiuta a “tirare una riga – una riga bellissima, fatta di colori, volti e fiori – su ciò che sono state e a segnare il punto della rinascita.”

Conclusioni

Ho trovato lo stile del romanzo di Lucille Ninivaggi non troppo scorrevole, forse perché manca di semplicità, la narrazione non è sempre lineare, si sposta fra le storie, utilizza la struttura narrativa del montaggio,  segue il corso del pensiero, anche se non si può parlare di “flusso di coscienza”.  Il libro, nonostante questa mancanza di linearità, merita di essere letto per i suoi contenuti, l’originalità del tema, perché parla di donne coraggiose che hanno tirato fuori le unghie e non permettono al male che le ha investite di fermarle.

Queste storie aiutano anche Lara a superare le sue paure e insicurezze e a sentirsi meno sola, perché come diceva la cara nonna Ada: “Ci sono volte in cui fare qualcosa per gli altri equivale a farlo per se stessi”. Ed è questa massima che aiuta Lara a raggiungere il grande successo, tanto che ora è diventata, per tutti coloro che l’hanno conosciuta, La tatuatrice gentile.

 

L’AUTRICE

 

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Sempre puntuale la nostra amica Maria Civita D’Auria ci invia i suoi consigli di lettura rispetto a libri internazionali. I contenuti riguardano temi sociali, di attualità, spesso connessi alla sempre più difficile situazione femminile, dove la società difetta degli strumenti adatti per affrontarla.

Il palazzo delle donne

di Laetitia Colombani

Collana NARRATIVA NORD

Numero di pagine 288

Formato Libro – Brossura fresata con alette

ISBN 9788842932604

Prezzo € 16.90

 

« Finche ́ ci saranno donne che piangeranno,
io lottero`. Finche ́ ci saranno bambini che
avranno freddo e fame, io lottero`. […] Finche ́
in strada ci sara` una donna che vende il suo
corpo, io lottero`. Io lottero`, lottero`, lottero`. »
WILLIAM BOOTH

Qui sei benvenuta. Qui sarai protetta. Qui troverai molto di più di quelli che cercavi.

«L’autrice della Treccia non delude: il suo secondo romanzo che dà voce a chi mai ne ha avuta, è bellissimo»Culture 31

«Due storie che corrono parallele sino a toccarsi, meglio ancora “intrecciarsi”. È ancora una volta questa la parola giusta, l’immagine che riassume il secondo romanzo di Laetitia Colombani»Ilaria Zaffino, Robinson

«Il meraviglioso ritratto di due eroine ingiustamente dimenticate»Le Figaro

Il Palazzo delle donne, il cui titolo originale è Les victorieuses, è il secondo libro di Laetizia Colombani, una scrittrice francese, autrice di La Treccia, suo romanzo d’esordio, che ha riscosso molto successo. Come nel primo romanzo anche ne Il Palazzo delle donne, la scrittrice affronta delle problematiche femminili molto toccanti.

Il passato

La storia è ambientata a Parigi, una città di cui l’autrice mostra il suo volto peggiore caratterizzato dalla povertà, la fame e l’emarginazione. La vicenda si sviluppa con armonia tra due diversi piani temporali: da un lato quello del passato, agli inizi del XX secolo, in cui la protagonista è Blanche che, nonostante la non più giovane età  e la salute cagionevole, si arruola nell’Esercito della Salvezza il cui credo è aiutare i più bisognosi. Blanche è una donna molto altruista e desidera dare una casa a tutte le senzatetto di Parigi, vittime delle conseguenze dell’atroce conflitto. Per questo acquista insieme a suo marito Albin, nonché grande complice di tutte le sue avventure, il Palais de la Femme, un ex convento, quello delle suore domenicane, cui un tempo era affidata l’educazione delle ragazze. Il Palazzo viene ufficialmente inaugurato il 23 giugno 1926.

Il presente

Sul piano del presente entra in scena Solène, una quarantenne, avvocato di successo che ha il coraggio di voltare le spalle alla sua carriera a causa del suicidio di un suo cliente, Arthur Saint-Clair, un influente uomo d’affari indagato per frode fiscale. L’uomo, dopo aver udito la sentenza del giudice che consiste nel carcere quasi a vita e diversi milioni di euro tra risarcimenti e interessi, non regge il colpo, oltre al pensiero dell’infamia e della disapprovazione sociale e si lancia dal sesto piano del Palazzo di Giustizia. Il suo corpo si schianta sul pavimento ventotto metri più sotto. Solène cade assieme a lui, nel senso che ha un totale burn-out tanto che si sveglia circondata dalle pareti bianche della sua stanza, nella clinica dove è stata ricoverata a causa della depressione che ormai sovrasta ogni suo interesse. La diagnosi dello psichiatra che la tiene in cura parla di “sovraffaticamento da lavoro” e le prescrive pillole per dormire e pillole per svegliarsi. Presto le consiglia di fare del volontariato, perché solo aiutando gli altri può aiutare se stessa e tornare a vivere serenamente. Dopo qualche tempo Solène torna nel suo piccolo appartamento elegante di un bel quartiere, pensa alle parole dello psichiatra e decide di seguire i suoi consigli.

Avvocato o scrittrice?

Una sera davanti al suo computer, un MacBook ultimo modello che i colleghi le hanno regalato per i suoi quarant’anni, porta avanti una ricerca sul sito del Comune di Parigi che raccoglie gli annunci pubblicati dalle varie associazioni di volontariato. È proprio allora che lo vede. Un annuncio piccolo in fondo alla pagina. Cercasi scrivano pubblico, che significa “prestare la propria penna, la propria mano, le proprie parole a chi ha bisogno”. Questo fa al caso suo. Del resto fare l’avvocato non è mai stata la sua vocazione. Fin da bambina ha sognato di diventare una scrittrice. Ha immaginato di passare la vita dietro una scrivania, riscuotendo successo con i suoi romanzi. Sono stati i suoi genitori, entrambi insegnanti di Diritto a dissuaderla e a pretendere da lei un lavoro sicuro, come quello dell’avvocato. Così Solène ha fatto quello che gli altri si sono sempre aspettati da lei e ha accantonato i suoi sogni. Adesso è ora di voltare pagina.

Il volontariato

Solène ha già deciso e si mette subito in contatto con il responsabile dell’associazione che si chiama Leonard ed è un uomo simpatico e gioviale, le assicura che lei ha tutti i requisiti per svolgere questo tipo di volontariato che prevede di aiutare donne povere a scrivere lettere o compilare moduli. Le propone questa mansione in una casa di accoglienza per donne in difficoltà che si chiama il Palais de la Femme e accoglie le emarginate di Parigi. Solène non ha idea di cosa sia la miseria, perché cresciuta in un ambiente più che benestante ma questo volontariato, per lei, è una terapia per uscire dalla depressione.

Le Palais de la Femme

Dopo qualche giorno Solène raggiunge il Palazzo perché ha un appuntamento con la direttrice, una donna di quarant’anni molto sicura e decisa. Solène rimane colpita dalla maestosità e l’imponenza dell’edificio. Un ampio frontone con un arco a tutto sesto sovrasta l’ingresso. L’interno è vasto e luminoso. Oltre ai monolocali e alle stanze c’è una palestra, una biblioteca, un aula di musica con due pianoforti e un salone di dimensioni sorprendenti. La direttrice spiega che le donne ospitate, durante la settimana fanno delle attività come il corso di zumba, laboratori di pittura, lezioni di ginnastica, francese, canto, yoga, informatica o inglese, per integrarsi più facilmente nella società. Quasi tutte le donne del Palazzo, continua a spiegare la direttrice, hanno avuto problemi di alcolismo, droga e prostituzione. Ci sono donne che hanno avuto problemi con la giustizia, lavoratrici disabili, donne migranti con alle spalle un viaggio complicato. La convivenza fra di loro non è facile perché sono tante e di diversa estrazione sociale e molte sono in conflitto fra di loro. Solène accetta la sfida e il giovedì successivo dopo che le donne hanno fatto il loro corso di zumba, si presenta al palazzo secondo gli accordi presi con la direttrice.

Le ospiti del Palazzo

Solène è intimidita da queste ospiti e difatti quando entra nel salone si sistema con il suo computer in un angolo. Vede alcune donne africane che stanno prendendo il tè, sedute comodamente in poltrona. Una donna carica di buste per la spesa che trascina a fatica e un altra intenta a sferruzzare, completamente assorbita dal suo lavoro, un maglione a coste molto bello. Ha i capelli corti, gli occhialetti sul naso e ha l’aria di essere diversa dalle altre donne, infatti si mantiene in disparte. Attraversa poi il salone una donna dalla pelle molto scura, seguita da una bambina di cinque anni con un pacchetto di caramelle Haribo che stringe nella mano. Sembra l’unica in grado di vederla, con i suoi occhi profondi e neri. Le offre una caramella che Solène accetta volentieri. Le altre donne si mostrano indifferenti alla sua presenza. ignorandola completamente.

Continuare il volontariato

Solène torna a casa molto scoraggiata ma, ripensando alla bambina della caramella, decide di continuare il suo volontariato. Una decisione che si rivela giusta, perché con il tempo, le donne smettono di essere diffidenti nei suoi confronti e le si avvicinano chiedendo di scrivere per loro. Cvetana, una donna serba, le chiede di scrivere una lettera alla Regina Elisabetta, perché vuole un autografo. Solène sorride però si rende conto che questa donna non ha nulla e ha il diritto di sognare. Poi c’è una delle donne Africane che vuole un risarcimento di due euro dal supermercato dove spende di solito perché il giorno prima il cassiere non si è accorto che gli yogourt erano in offerta e le ha fatto pagare due euro in più. C’è chi ha fame e non ha che due euro per mangiare. Questa è la dura realtà che si presenta agli occhi di Solène. Infine, per quel giorno c’è Binta, la donna nera con la bambina di cinque anni che le chiede di scrivere una lettera al figlio Khalidou che ha lasciato in Guinea. Lo ha fatto per salvare la figlia dalla mutilazione degli organi genitali, una tradizione straziante che continua ad esistere. Solène entrando in contatto con queste donne, ne conosce la loro storia e si identifica con loro perché lei, anche se in maniera diversa, ha provato l’amarezza della vita. E le donne la accolgono invitandola anche a ballare lo zumba come se fosse una di loro.

Perché leggere Il palazzo delle donne 

La lettura di questo libro mi ha ricordato Il ballo delle pazze di Victoria Mas. Lì all’ospedale Salpêtrière sono ricoverate le alienate. Qui nel Palazzo delle donne vi sono le emarginate. Ma tutte queste donne in comune, hanno un passato di dolore e di sofferenza. Il Palazzo delle Donne non è un romanzo dove accadono molti fatti. È un libro che parla di guarigione.

Diviso in due momenti storici diversi e scollegati fra loro, così come lo sono le protagoniste, ha come unico legame il grande Palazzo parigino che Blanche agli inizi del ‘900 aveva fatto rivivere per dare una parvenza di dignità alle donne emarginate. Solène, involontariamente proverà con grande coraggio a fare sua questa missione. Riuscirà la nostra Solène a guarire dalla depressione?

La scrittura di Laetizia Colombani è scorrevole, quasi giornalistica nella narrazione della nascita del Palais de la Femme, nonostante la tematica spesso scivola nel dramma. Il messaggio che l’autrice ha voluto lasciare ai lettori di queste pagine è di non essere sospettosi e non avere preconcetti nell’aiutare gli altri, perché così facendo, troveremo un altro motivo per esistere meglio.

L’AUTRICE

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Laetitia Colombani è nata a Bordeaux nel 1976. Ha studiato cinema all’École Louis-Lumière e ha diretto il suo primo film a soli venticinque anni. In breve tempo, si è imposta come regista, sceneggiatrice e attrice. Ha lavorato con attrici del calibro di Audrey Tautou, Emmanuelle Béart e Catherine Deneuve. La treccia (NORD 2018) è il suo romanzo d’esordio, che è rimasto per mesi ai vertici delle classifiche francesi e aggiudicandosi il prestigioso Prix Relay.

Copyright Celine Nieszawer.

Questo spazio ospita ancora una volta Maria Civita D’Auria con i suoi sempre attuali consigli di lettura

La ladra di parole, Abi Daré, Editrice Nord, romanzo

LA LADRA DI PAROLE

di Abi Daré

Casa Editrice Nord 2021 s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Pag. 366

Euro 18,00

Leggi le prime pagine

L’autrice dedica il libro alla madre, la professoressa Teju Somorin, prima donna a insegnare diritto fiscale e tributario in un’università nigeriana, soprattutto per averle fatto capire l’importanza dell’istruzione.

Il Prologo ha l’importante funzione informativa di introdurre le principali notizie sulla Nigeria, una nazione situata nell’Africa occidentale.

Con una popolazione di quasi 180 milioni di persone, è la settima più popolosa del mondo. Ciò significa che un africano su sette è nigeriano. Sesta al mondo per esportazione di greggio, con un PILdi 568,5 miliardi di dollari, la Nigeria è la nazione più ricca dell’Africa. Purtroppo, però, più di 100 milioni di nigeriani vivono in povertà, con meno di un dollaro al giorno.
Il libro dei fatti: Nigeria tra passato e presente
quinta edizione, 2014

Per le ragazze come me, il futuro è già deciso.

Ma io non mi arrendo nel silenzio.

Un giorno troverò la mia voce.

LA STORIA

La ladra di parole è il romanzo di esordio di Abi Daré, una scrittrice nigeriana che si è trasferita in Inghilterra da quasi vent’anni dove si è laureata, sposata e realizzata. Con questo libro, difatti, Abi Daré ha vinto il Bath Novel Award e ha scalato le classifiche inglesi e americane.

Il titolo originale di questo testo è The girl with the louding Voice tradotto da Elisa Banfi, che è riuscita molto bene a dare un’idea della lingua parlata dalla giovanissima Adunni, la protagonista del libro: il Broken English è un’inglese scorretto da un punto di vista sintattico e grammaticale, molto simile all’inglese degli analfabeti.

Il sogno di Adunni

La storia è ambientata a Ikati, un piccolo villaggio della Nigeria e la protagonista è questa ragazza di quattordici anni che ama andare a scuola e sogna di diventare maestra per trovare la propria voce e insegnare alle bambine come, grazie all’istruzione, possono liberarsi dalla miseria, guardare lontano, cercare la propria strada.

Il vecchio Morufu

L’aspirazione di Adunni viene però stroncata dal padre, un uomo duro, sempre con la faccia scura e la puzza di alcol. Un giorno l’uomo chiama la figlia nel loro parlour (salotto) per dirle che non ci sono i trentamila naire per pagare l’affitto e non ci sono neanche i soldi per mangiare. Per questo non può continuare ad andare a scuola e deve sposare Morufu, un vecchio del villaggio. Morufu ha la faccia da caprone, guida il taxi, è ricco e ha già due mogli e quattro figlie. Lui è disposto a pagare l’owo-ori, il prezzo per sposare Adunni, perché vuole a tutti i costi un figlio maschio e la famiglia della ragazza ha un bisogno disperato di quei soldi.

Adunni cerca di opporsi in tutti i modi esprimendo la propria preoccupazione per i fratelli più giovani: Born-Boy, il primo nato e Kayus, il secondo che, essendo maschi non si possono occupare del padre e della casa. Inoltre ricorda al padre la promessa che ha fatto sul letto di morte alla mamma, che non voleva vederla sposata con nessuno, perché per Adunni aspirava prima di ogni cosa a un impegno nello studio. Difatti solo con l’istruzione poteva sperare in un lavoro che le facesse trovare la propria voce. Il padre le risponde che con le promesse non ci paghi l’affitto e non ci mangi. E aggiunge che non si deve preoccupare per i fratelli, perché sapranno cavarsela e si occuperanno di lui.

A casa di Morufu

Adunni non ha altra scelta. Sposa Morufu e si trasferisce nella casa buia che lui ha costruito con le sue mani e che abita da vent’anni. Conosce Labake, la prima moglie dall’aspetto spaventoso, a causa di una polvere bianca che mette in viso che la fa sembrare un fantasma. Più rassicurante è Kadija, la seconda moglie, in stato di gravidanza. Poi ci sono le quattro figlie delle quali, una, ha la sua età .

Fin dai primi giorni la convivenza in questa casa è difficile. Morufu, a causa del suo lavoro è sempre fuori e quando è con loro detta legge, perché si considera il re essendo un uomo e le donne devono stare in silenzio e subire anche un sesso violento che, ogni volta, sembra uno stupro. Questa è la sua volontà. Poi c’è Labake che è molto gelosa e aggredisce Adunni per un nonnulla. Invece Kadija è buona e le insegna a fare tante cose. La consola e la incoraggia, tanto che le prepara anche un rimedio naturale per non rimanere incinta, così che la ragazza può sperare di non rimanere per sempre la moglie di questo vecchio.

La fuga di Adunni

Un desiderio, quest’ultimo, che viene esaudito perché a causa di una tragedia che accade a casa di Morufu, Adunni fugge, e grazie a Iya, un’amica della mamma, trova lavoro a Lagos come domestica per una ricca imprenditrice, proprietaria di un negozio di tessuti che si chiama Kayla’s fabrics. Kayla’s è il nome di sua figlia.

La villa di questa signora è sontuosa e colpisce molto Adunni, che però rimane senza parole soprattutto quando incontra Big Madam, perché è molto grassa ed eccentrica. Veste di lunghi bou bou di pizzo e usa un trucco volgare carico di mille colori. Ad Adunni detta ordini che non accettano repliche e mostra subito tutta la sua tirannia e dispotismo picchiando Adunni quasi tutti i giorni .

Il Libro dei fatti

Inoltre Adunni deve sopportare le molestie del marito di Big Madam, che si chiama Big Daddy, non lavora ed è dedito all’alcol e alle donne. È anche uno scommettitore cronico e la moglie è costretta a pagare i suoi debiti. Adesso non c’è giorno che non fa delle avance a Adunni. L’unico amico di Adunni è Kofi, il cuoco ghanese che le consiglia di stare attenta al marito di Big Madam e di stare lontana da quest’ultima quando è nervosa per evitare calci, schiaffi e pugni. Così Adunni spesso si rifugia nella biblioteca e legge il dizionario Collins e il libro dei fatti: Nigeria tra passato e presente, migliorando un poco il suo inglese.

Mis Tia

Kofi non rimane il suo unico amico perché a una riunione di donne facoltose del luogo, tenuta a casa di Big Madam, incontra Mis Tia, una militante ambientalista inglese, che da vera amica si offre di insegnarle l’inglese. Riuscirà la nostra Adunni a vedere affermate le proprie capacità intellettuali e a entrare nel mondo della scuola che ha tanto desiderato?

Perché leggere La ladra di parole

La storia di Adunni è drammatica e coinvolgente al tempo stesso, in quanto mette in risalto un aspetto sociale delle donne africane, auspicabile per tutti, che è quello della solidarietà e dei legami forti che instaurano fra di loro, in barba al maschilismo imperante.

Istruttivo ma inaccettabile leggere di una Nigeria tanto povera, dove esiste ancora la tratta degli schiavi e il patriarcato. Ma la nostra Adunni ha coraggio da vendere. Ogni volta che la vita la mette in ginocchio si rialza e riprende il suo cammino verso la propria affermazione e la libertà.

La scelta da parte Abi Daré di usare una lingua sgrammaticata non solo nei dialoghi, ma anche nel narrato, se può sembrare eccessivamente realistica, nel suo intento rende l’oggettiva difficoltà affrontata dalla protagonista e da quanti come lei non hanno avuto da bambini la possibilità di seguire un normale corso scolastico.

L’AUTRICE

Abimbola “Abi” Daré è un’autrice nigeriana che ora vive nell’Essex, in Inghilterra. Nel 2018 ha vinto il Bath Novel Award ed è stata finalista nel Literary Consultancy Pen Factor 2018. Il suo romanzo d’esordio The Girl With the Louding Voice è stato pubblicato nel 2020.

 

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«Sono entusiasta di questo romanzo. In moltissime parti del mondo, le donne lottano ancora per ottenere il diritto all’istruzione. Sono grata ad Abi Daré per averci fatto sentire la forza della loro voce.»

Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace

Maria Civita D’Auria

269602102_10221258410113135_4181021892046688976_nAutore Ciro Lenti
 

Editore Pellegrini

Collana Romanzi

Formato Brossura

Pubblicato 28/02/2022

Pagine 148

Lingua Italiano

Isbn o codice id 9791220500678

Leggi un estratto

Segnalazione Premio Calvino anno 2019

Secondo posto assoluto al Premio Internazionale Lexenia Arte e Giustizia anno 2019

DALLA QUARTA

Un piccolo imprenditore, in un vecchio macello, per quel giorno adibito a tribunale, attende che il giudice si pronunci sull’istanza di un fallimento avanzata dai suoi creditori, gli fa da cornice narrativa un impietoso corso di voci, un intero paese che racconta e che giudica. Ad assisterlo un legale donna al nono mese di gravidanza, dal carattere scostante e dall’umore mutevole. Botta e risposta tra cliente e avvocato, entrambi prossimi a un drammatico capolinea, il dissesto finanziario si intreccia a quello esistenziale, mentre, nella concitazione del momento, la paventata udienza assume sempre più i contorni dell’ultima spiaggia: o salvarsi o fallire.

IL VOLO DELLA TALPA Titolo curioso per un’opera che mette in scena un tema legale. Ma i quattro termini del titolo racchiudono al loro interno la chiave dell’intero romanzo. Serve intanto sapere che la talpa, a differenza del falco, è cieca, e scava, seguendo il suo istinto, scava nella terra, sempre più in basso convinta di salire in alto verso il cielo.

A complicare, o chiarire le intenzioni dell’autore – dipende dai punti di vista – compare il  sottotitolo abderitica di un insolvente

E se non siamo ancora convinti interviene Murakami

Forse non ce la farai a fuggire dal tempo, nemmeno arrivando ai confini del mondo. Ma anche se il tuo sforzo è destinato a fallire, devi spingerti fin laggiù. Perché ci sono cose che non si possono fare senza arrivare ai confini del mondo.

Murakami Haruki

ROMANZO DI SCENA

Ciro Lenti, chiama i suoi romanzi “Romanzi di scena”, un ibrido fra teatro e romanzo, un modo per rendere il suo stile personale, per autodefinirsi non solo drammaturgo, ma allo stesso tempo romanziere.

Sono un drammaturgo che ha sempre scritto per il teatro fino a quando un mio testo teatrale non si è trasformato in romanzo

La sperimentazione che Lenti prova ad attuare con Il volo della talpa consiste nel superare il limite del narratore: al suo posto è chiamato a narrare il coro, che si va ad inserire nella cronaca dei fatti, così come avvengono sulla scena – in questo caso un mattatoio/tribunale.

I personaggi del coro – figure di contorno – attuano la ricostruzione del passato del protagonista e, mentre lo descrivono, si autodescrivono: raccontano il protagonista e, nello stesso tempo, raccontano se stessi. Il lettore vede l’insolvente Nanni attraverso gli occhi di quanti lo hanno conosciuto e frequentato: amici, parenti, medici, avvocati bancari, che intervengono nel bel mezzo dell’azione o di un dialogo, come fossero chiamati in tribunale in quanto testimoni diretti dei fatti. Questo espediente consente di conoscere la personalità e il passato di Nanni, ma è anche il controcanto del narratore per dare ritmo al racconto.

CHI RACCONTA

Nanni, voce fuori dal coro, racconta la sua disavventura nel momento stesso in cui prova a risolverla. Non può subire le conseguenze irreparabili del fallimento finanziario che comporterebbe anche quello esistenziale, onta inaccettabile. Usa ogni mezzo, lecito e illecito, situazioni reali e fantasiose, pericolose e surreali.

Tutti gli attori di questo “romanzo di scena”, comunque, se vogliono sopravvivere, devono ricorrere a bugie, strategie e compromessi.

“Rendere romanzo un testo drammaturgico – dice l’autore – serve inoltre ad affrancare il testo da tutti quegli elementi che sono connessi alla produzione di uno spettacolo teatrale, perché il testo teatrale non vive se non sul palcoscenico e se la produzione non è possibile il primo a risentirne è proprio il testo per cui l’autore si è riproposto di trasformare almeno un testo che possa camminare con le sue gambe e non debba aver bisogno di una produzione, attori, registi e quant’altro.”

Fra i tanti pareri positivi, nei confronti di questo genere letterario sperimentale, quello di una lettrice che  leggendo il libro ha provato lo stupore, come mai prima, di chi si trova in teatro, seduto direttamente sulla scena. Quasi un gioco di specchi.

IN EQUILIBRIO

La struttura narrativa, che potrebbe diventare – con i dovuti aggiustamenti – anche teatrale o filmica, risulta ben equilibrata nella suddivisioni delle sue parti: un brevissimo prologo, quattro capitoli, proporzionati nella rispettiva lunghezza – ma anche atti o tempi in cui le azioni si svolgono nell’arco di una giornata e, come recitano i titoli, in luoghi precisi: nel corridoio, in aula, poi  il volo della talpa, la vicenda che prende una brutta piega,  e infine per aspera ad astra con lo scioglimento finale.

CHI SCRIVE

Ciro Lenti esercita la professione di avvocato, oltre a dedicarsi con successo alla drammaturgia, “Non è un caso – dice – che ci siano tanti avvocati che scrivono romanzi. Il materiale umano a disposizione è enorme. Sul palcoscenico della giustizia si muovono figure spesso drammatiche, a volte anche comiche, grottesche e all’interno di un tribunale si mettono in scena situazioni di profonda tensione. Il tribunale dovrebbe essere il luogo in cui si ottiene giustizia, quindi il trionfo della ragione, ma spesso non è così. Ho fatto un esperimento, ho trovato questo stile che non esiste, questo romanzo di scena. Ho provato a vedere se funziona. ho avuto buone risposte, quindi vado avanti.

UN ESERCIZIO DI LEGGEREZZA

Calvino diceva che scrivere sarebbe anche un esercizio di leggerezza per liberarsi della forza di gravità che ci schiaccia, per elevarsi. Bisogna essere leggeri non come la piuma, ma come un uccello, non portato dai venti, ma volando attraverso i venti. Scrivere forse è proprio questo.”

INCIPIT

Strisciate le suole sullo zerbino, Nanni s’infila gocciolante nel budello d’ingresso, trenta metri di angusta direzione obbligata lungo il passaggio che fu delle bestie

I passaggi da ricordare

«Puntare sul fallito è come puntare sul cavallo brocco – vero avvocato? – e se hai ancora un euro a tua disposizione non sei certo così sprovveduto da puntarlo sul “brocco”, perché lo perderesti di certo, matematico! Ma se – putacaso – il brocco dovesse vincere, e la talpa volare…».

pregio la leggerezza del volo

principio attivo la verità della menzogna

controindicazioni pregiudizi

perché leggerlo perché qualcuno potrebbe trovarsi nei panni di Nanni

quando leggerlo nelle pause del tempo

dove leggerlo Alle isole Chatham

BUONA LETTURA

 

 

 

CONCHA MENDEZ, LA PIONIERA

Pubblicato: 1 Maggio 2021 in News

libriallospecchio

Al nacer cada mañana

mepongo un corazón nuevo

que me entra por la ventana..

Ogni mattino al risveglio

indosso un cuore nuovo

che entra dalla mia finestra…

Mi domando sempre come vorrebbe essere ricordato un autore: per le sue doti letterarie, per la sua sensibilità, per gli argomenti trattati nelle opere? O semplicemente per il suo percorso umano?

Giunta all’ultima pagina del libro di memorie della scrittrice Concha Méndez questa domanda è ancora più pressante. Concha è stata una donna talmente piena di vita e di coraggio che racchiuderla, e ridurla, in una definizione -poetessa, autrice – mi sembrerebbe di sminuirla.

Nata nel 1898, esattamente come il poeta e drammaturgo Federico Garcia Lorca, Concha fu protagonista del fervore culturale che si respirava in Spagna negli anni ’20 e ’30, prima e durante l’avvento della Seconda Repubblica. E sfortunatamente, come altri suoi contemporanei, assistette e subì la Guerra Civil.

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