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24 ottobre ore 15,30 Centenario della disfatta di Caporetto.

Una storia al di qua dei campi di guerra.

di Vanna D’Amato

Forse fu la sua voglia di mangiare a favorirne il destino. Doveva essere una bambina che aveva sempre fame, era stata nutrita col latte di sua madre fino a quattro anni, e adesso che ne aveva sette non le bastava mai il piatto, e questo, unito al fatto che era femmina, ancora troppo piccola per dare una mano in casa, ma abbastanza grande rispetto all’ultima nata, dovette essere decisivo perché la scelta di allontanarla ricadesse su di lei.
Non fu nemmeno la madre ad accompagnarla, fu la zia ricca, che le aveva promesso una bambola alta quanto lei se avesse accettato “veramente”di andare via, all’orfanotrofio per orfani di guerra. Come se avesse avuto sul serio la possibilità di rifiutarsi!

Vanna D'Amato, mestierelibro, Una storia al di qua dei campi di guerra, CaporettoI fratelli l’avevano guardata con timore al mattino, quando l’avevano vista infagottata in un giacchettino fornito da una cugina della madre, smesso da una delle sue bambine e tinto di nero: era un giacchettino al posto dello scialletto nero che di solito copriva la testa e le spalle nelle giornate di freddo, e che non avrebbe portato con sé nello strano posto dove stava per andare. La zia ricca aveva detto che l’avrebbero vestita da capo a piedi, in quel posto, perciò lo scialletto era meglio che restasse a casa, dove poteva servire magari a qualcun’altra. Voleva farle lasciare pure la bambola di stracci che le aveva fatto comare Rosaria, nei giorni che aveva dormito da lei, dopo che la madre era caduta dalle scale quando era arrivato l’uomo del telegramma; ma lei si era ostinata a portarla con sé e per tutto il viaggio in treno, durante il quale non aveva visto quasi niente delle cose che le indicava la zia fuori dal finestrino, l’aveva tenuta stretta al petto facendo sì sì con la testa. Non era per rispondere alla zia, come quella pensava, ma perché continuava a ripetere nella testa – sì sì, stai con me tu, non ti lascio – e si sentiva consolata e fortificata in quello sforzo che non si interruppe mai per tutto il viaggio, continuando per le strade affollate e scure di quel luogo sconosciuto che era la città, lo sforzo di rassicurare la pupa di pezza.

La signora che l’accolse in una grande sala piena di quadri, con il pavimento coperto di tappeti, aveva un sorriso garbato e distante, e profumava di rosa. Si aggrappò a quell’odore tenue che aveva il nome della madre, e decise che la signora doveva essere per forza buona come lei, la madre che l’aveva mandata via in un posto dove sarebbe stata meglio – le aveva detto – e dove avrebbe mangiato più dei fratelli che restavano a casa e senza di lei avrebbero avuto solo un poco di latte in più. Decise che sarebbe stata buonissima per ricompensare la signora e per farsi volere bene, come aveva detto la nonna quando era andata a salutarla – fa’ la brava e fatti volere bene – ma intanto le faceva male la pancia e aveva una voglia improvvisa di fare la cacca, di cui si vergognava terribilmente.

La signora era seduta accanto al fuoco, un fuoco era altissimo e allegro, che scintillava dentro un camino bianco come non aveva mai visto. Al suo paese il rosso del fuoco si combinava col nero delle fornacelle o dei forni in cui si cuoceva il pane, e intorno al fuoco, i mattoni, il pavimento e il muro in cui si apriva la grotta buia che raccoglieva la legna e le braci, tutto era nero di fuliggine e carbone. Non aveva mai visto un fuoco così ricco e circondato da tanto splendore di bianco. Sulla parete in alto c’era un grande quadro che rappresentava una dama con un vestito giallo, il collo e le spalle scoperti, e intorno al collo un filo di perle scure sulla pelle chiara. Aveva i capelli raccolti dietro la nuca, come li portava sua madre, ma erano biondi e si intravedeva, essendo il viso atteggiato lievemente di profilo, una retina luccicante che incorniciava il “tuppo” biondo.

Quasi nulla registrò invece, in quel primo incontro, della signora in carne e ossa, a parte il profumo di rosa. Del resto sarebbe stata la stessa cosa anche in seguito: c’era in lei qualcosa che teneva a distanza, quasi una preghiera di non essere sfiorati nemmeno con lo sguardo dalla miseria degli altri. Teresina pensò che il grande quadro fosse il ritratto della signora, ma non era affatto così. Ci vollero mesi perché mettesse a fuoco la differenza tra le spalle nude della donna del quadro e gli abiti accollati e scuri della signora accanto al fuoco, tra lo splendore malinconico del viso sopra il camino e le labbra sottili e smorte, il naso che piegava leggermente all’in giù, della signora seduta sotto il quadro. La voce con cui le chiese – come ti chiami – non aveva il punto interrogativo, come se non le importasse veramente saperlo, e il cenno del capo che inclinava verso il fuoco era un altro segnale misterioso che poteva volere dire – che scocciatura – oppure – benvenuta – allo stesso modo, lei non sapeva decifrarlo. Comunque disse il suo nome con un filo di voce, malgrado la mancanza del punto interrogativo, e le sembrò che la sua voce fosse assorbita dai tappeti e dalle tende della stanza.

Dall’altro lato del camino bianco era seduto un signore più anziano, con i baffi girati in su e gli occhi vispi sotto folte sopracciglia grigie striate di scuro. I capelli invece erano tutti bianchi, e il sorriso con cui la guardava era pieno di comprensione. Sembrava sapesse perfettamente che le faceva male la pancia e che aveva una paura tremenda, ma pareva volesse dirle che sapeva anche che sarebbe andato tutto a posto tra un poco. Si limitò a dire alla signorina che l’aveva accompagnata di occuparsi di tutto quello di cui la bambina avesse bisogno in quel momento, e soprattutto di darle una bella tazza di latte zuccherato – nel dire questo le strizzava allegramente un occhio – e poi assicurarsi che avesse vestiti puliti e un letto caldo. Avrebbero fatto amicizia il giorno dopo, disse, e la congedò senza toccarla. Mentre usciva con la mano nella mano della signorina, la bambina non aveva più mal di pancia e pensava al latte caldo zuccherato, ma sapeva anche di avere le mutandine sporche, adesso, e si chiedeva come avrebbe fatto a nasconderle. La signorina la portò dritto in una stanza da bagno, con una grande vasca coi piedi di animale, e senza parlare aprì i rubinetti da dove usciva zampillando acqua calda e fredda, poi si volse a lei mentre la vasca si riempiva e cominciò a spogliarla, sempre in silenzio. Degnò appena di uno sguardo le mutandine striate di marrone e fece un mucchio in un angolo di tutti i suoi vestiti, tenendo da parte solo il giacchettino nero tinto, poi la invitò ad entrare nella vasca e cominciò a lavarla. Soltanto allora, quando sentì la carezza dell’acqua tiepida sul corpicino rattrappito nella tensione gelata delle ultime ore, e una corrente benevola le scese dalla testa sulla nuca e lungo la schiena, sulla vergogna della pelle sporca e macchiata di cacca, coperta di puntini come quando aveva tanto freddo e faceva la “pelle di gallina”, soltanto allora arrivarono le lacrime.

Quando la lunghissima notte in cui Teresina pianse fino a sfinirsi, con la testa sotto il cuscino, per non farsi sentire dalle compagne della camerata, dopo che la signorina l’aveva asciugata, consolata in maniera spiccia, dicendole di piantarla che tanto domani le sarebbe passato tutto, dopo che ebbe ingollato con avidità il latte caldo zuccherato ricavandone una grande consolazione per il corpo, come prima lo era stata l’acqua calda, ma una specie di inasprimento della pena del cuore, dopo che ebbe pensato punto per punto tutto quello che in quel momento stava accadendo laggiù nella vecchia casa accanto al fuoco rosso e nero della cucina, i fratelli che si accapigliavano, la sorella maggiore che tagliava il pane in pezzi piccoli perché sembrasse di più, la mamma (oh, la mamma) che cullava la piccola per farla addormentare, la piccola che sentiva quella sera di odiare con tutte le sue forze, dopo che la sua bambola di pezza fu talmente zuppa delle sue lacrime che sembrava avesse pianto con lei, e finalmente si erano addormentate insieme, quando la notte finì e la luce opaca di un giorno di novembre illuminò un lungo tavolo di facce di bambini e tazze di latte fumante, Teresina decise di chiudere nel più profondo del cuore il ricordo di quei primi momenti, e non aprire mai più quel cassetto, fino a quando non si fosse ripulito di tutto il dolore.